Siamo tutti psicologi (ingenui)

Che cosa rivela l’apparenza della nostra vera identità? La nostra immagine e il nostro comportamento rivelano molto di noi agli altri, a partire dalla prima impressione.

Durante una vacanza in una città araba famosa per i suoi vicoli stretti di mercati, turisti e incantatori di serpenti, rimasi colpita da come i locali si rivolgessero a me in italiano, per attaccare bottone e accaparrarsi una vendita, anche quando io non stavo proferendo parola alcuna. Semplicemente osservavano e deducevano la mia nazionalità.

La guida che mi accompagnava disse che in città sono tutti “un po’ psicologi”: riuscivano cioè a individuare la provenienza di una persona solamente dal suo aspetto esteriore, dal suo modo di vestire, di camminare, di gesticolare, dal colore della sua pelle, dei suoi occhi e dei suoi capelli.

La guida dava ragione quindi a Fritz Heider, pioniere della psicologia sociale, che negli anni ‘60 del secolo scorso sosteneva che siamo tutti quanti psicologi, o meglio psicologi ingenui.

Siamo cioè tutti portati a valutare i tratti salienti di una persona dal punto di vista caratteriale, inferendoli dalle informazioni che percepiamo.

L’essere umano compie questa operazione per assolvere a una funzione adattativa. Capire gli altri, capire alcune caratteristiche della loro personalità o tratti del loro carattere permette di immaginare e prevedere il loro comportamento e, di conseguenza, serve a decidere se si vuole interagire e rapportarsi con quella determinata persona e, se sì, come farlo.

La psicologia cognitiva dice che ci creiamo uno schema mentale di una persona, a partire dalle prime impressioni che abbiamo raccolto su di essa: è un uomo o una donna, che età ha, è alta o bassa, è grassa o magra, di che colore ha la pelle, com’è abbigliata, ha tatuaggi o piercing, tiene in mano una ventiquattrore o tre borse della spesa.

Questi sono solo alcuni esempi rispetto a ciò che di una persona possiamo osservare anche a un primo impatto, elementi che però danno già alcune informazioni sulle quali tutti noi facciamo inferenze o interpretazioni: se è una donna, ha fra i 30 e i 40 anni, indossa scarpe basse e vestiti comodi e ha borse della spesa a tracolla, penseremo che con buona probabilità si tratti di una mamma.

Gli schemi della mente

L’essere umano crea degli schemi nella sua mente in un processo di economia di pensiero e di risorse energetiche: il nostro pensiero genera categorie entro le quali inserire le persone con cui si viene in contatto fin dalla prima impressione e tende a interpretare le successive informazioni che acquisisce su quella persona in base al primo schema creato.

Se per esempio incontriamo un individuo dall’aspetto formale e un po’ severo che ci ha dato l’impressione (cioè lo abbiamo messo nello schema mentale) del “sicuro di sé, arrivista”, quand’egli ci sorriderà, inseriremo tale stimolo nello schema costruito e proveremo il timore che si tratti di un sorriso manipolatorio. Al contrario, se conosciamo una persona che a primo impatto ci ha dato l’impressione di disponibilità e di ascolto, interpreteremo un suo sorriso come un gesto di ulteriore apertura e interesse nei nostri confronti.

E la formazione della prima impressione si genera anche dalle informazioni che trasmette il nostro aspetto esteriore.

La capacità comunicativa dell’aspetto esteriore

Paul Watzlawick, ricercatore della scuola di Palo Alto in California, insieme al suo team ha studiato la comunicazione umana, da cui ha ricavato 5 assiomi. Noi qui ne prenderemo in considerazione due: il primo e il quarto.
Il primo assioma sulla comunicazione umana afferma che non si può non comunicare, il quarto invece ha a che fare con il linguaggio verbale e non verbale.

Non si può non comunicare e al contempo tutto è comunicazione

Anche quando stiamo in silenzio, anche quando crediamo di non trasmettere alcuna informazione, in verità stiamo “dicendo” qualcosa di noi.
Come? Attraverso quello che Watzlawick chiama il modulo analogico (quarto assioma):

Gli esseri umani comunicano con un modulo verbale e con un modulo analogico

Il modulo analogico corrisponde alla comunicazione para verbale e alla comunicazione non verbale.

La comunicazione para-verbale comprende:

  • tono della voce,
  • timbro della voce,
  • registro,
  • ritmo dell’eloquio,
  • volume della voce.

La comunicazione non verbale comprende:

  • aspetto esteriore,
  • mimica facciale,
  • movimenti delle mani,
  • postura,
  • comportamento spaziale,
  • prossemica (distanza interpersonale).

Il modello 55, 38, 7 di Merhabian

E lo psicologo Merhabian sostiene che all’interno di una comunicazione che avviene in una relazione fra due o più persone, il peso delle componenti non verbali e para verbali del messaggio che vogliamo trasmettere è molto grande: il 38% del significato di una comunicazione dipende dagli elementi para verbali, il 55% dagli elementi non verbali, di cui fa parte anche l’aspetto esteriore, e solo il 7% è legato al contenuto (verbale).

Dunque se non si può comunicare, una prima impressione di noi la trasmettiamo sempre, che lo vogliamo e ne siamo consapevoli o meno.
Inoltre tale apparenza la comunichiamo soprattutto attraverso gli aspetti para verbali e non verbali della nostra comunicazione.

Non vale dunque la pena prestarci un po’ di attenzione?

L’abito non fa il monaco

A ben pensarci, i personaggi buoni delle fiabe sono tutti belli e dai lineamenti regolari e rassicuranti, mentre i personaggi cattivi sono tutti brutti.
Questa stratagemma, che viene usato dagli illustratori, ci fa pensare a quanto la nostra mente a volte possa semplificare gli stimoli che arrivano, ciò che vede, nel tentativo di fare un ordine sommario, con l’obiettivo di capirci qualcosa in più, in fretta della situazione in cui si è e delle persone da cui si è contornati.

È evidente quindi che stiamo parlando della possibilità, molto alta in effetti, di incappare in vizi sistematici di attribuzione e quindi di errori, fraintendimenti o distorsioni che nascono dall’aver dato un’interpretazione a una osservazione senza andarla a verificare. Ciò avviene sulla base dei nostri filtri interni, dati dalla nostra personalità e carattere, dalle nostre esperienze precedenti, dal momento di vita che stiamo passando e così via.

Sarà forse per questa attitudine comune a farsi un’idea a partire dall’apparenza e da un pre-giudizio che, ancora oggi, purtroppo, ci si imbatte nella credenza che lo psicologo valuti il suo paziente, lo giudichi appunto.

Questo pregiudizio non solo è errato, ma anche pericoloso: perché porta le persone che ne hanno bisogno ad avere paura di farsi curare.
Lo psicoterapeuta, in ambito clinico, osserva chi ha di fronte non per giudicarlo, non per metterlo a nudo, bensì per scoprirlo e per conoscerlo.

L’apparenza in terapia

Come ho scritto in un articolo dello scorso anno, quando ho una persona davanti a me in seduta, il mio compito non è valutarla, bensì sentirla, ascoltarla, guardarla: non osservo, ad esempio, come questa sta seduta per giudicare se è a disagio o meno, per coglierla in fallo se fa un gesto di chiusura, ma per capire come si sta sentendo in quel momento.
Uno sguardo scevro da moralismi e giudizi che permette di osservare le cose per quel che sono, un po’ come fanno i bambini.

E ciò che osserva diventa materia di discussione con il paziente: insieme, psicoterapeuta e paziente ragionano, riflettono, prendono contatto con quanto emerso in seduta per scoprirne tutte le possibili sfumature di significato.

Quando un paziente approda nella stanza d’analisi, un po’ come fanno quei mercanti arabi, l’ascolto del terapeuta non si rivolge solamente alle sue parole, ma anche a ciò che la sua corporeità sta raccontando in quel momento: perché uno sguardo basso, una mano sulla bocca, una fronte corrugata, un eloquio ininterrotto possono esprimere molto di quella persona.

Così come il suo modo di vestirsi e agghindarsi: una ragazza con i capelli blu e i piercing sul viso, un giovane adulto dalla pelle tatuata, un uomo dalle camicie cifrate, una signora che cambia pettinatura ogni settimana.

Ma a differenza di ciò che succede in un mercato affollato e nella vita di tutti i giorni, il terapeuta nella stanza d’analisi indaga insieme al suo paziente il significato di quei dettagli e di quell’apparenza.

Perché, che cosa vogliano dire, non lo si sa mai a priori: i significati di come ci si presenta al mondo non sono mai standard, ma assumono il senso che quella persona, più o meno consapevolmente, vuole dare loro.

Si può trattare di difese, desiderio di emergere, insicurezza, di rigidità, seduzione e di tante altre accezioni che vanno scoperte e conosciute insieme, paziente e terapeuta, nel loro lavoro/percorso.

La storia di Pamela

Ricordo una paziente arrivata in terapia per un problema di individuazione di sé. Figlia di una madre che mandava spesso il messaggio di essere più brava di lei a fare qualsiasi cosa (“Lascia stare tu, che sei una buona a nulla!”), Pamela, nome ovviamente di fantasia, approda nella stanza d’analisi incapace di intraprendere relazioni mature e soddisfacenti sia sentimentali sia di amicizia sia con i colleghi.

Vive a casa con la madre nonostante abbia abbondantemente superato l’età dell’autonomia e abbia un lavoro stabile e ben retribuito che le consentirebbe l’indipendenza. Ha un fidanzato da ormai molti anni con cui non condivide alcun progetto di vita insieme.

La domanda di terapia di Pamela ha a che fare con il suo diventare grande, non solo anagraficamente, ma anche emotivamente, per sganciarsi dall’immagine e dal ruolo dell’incapace che le è stato affibbiato e riuscire così a costruire la sua identità autentica.

Un passo alla volta Pamela riesce ad affrontare le sue paure (come la paura di non essere abbastanza, di non essere in grado, di non piacere, di non farcela) e scopre invece che quando si mette in gioco, ottiene buoni riscontri: trova amici su cui contare, impara a guidare anche fuori città, inizia ad avere fiducia in quello che dice e pensa, instaura una nuova relazione amorosa, tumultuosa sì, ma che la fa crescere.

E cambia il suo modo di vestire.

All’inizio Pamela arrivava in seduta con un paio di jeans né larghi né stretti, scarpe da ginnastica, i capelli raccolti in una coda, pulita e ordinata nel suo maglione rosa di cotone spesso.

Mai un filo di trucco. Mai un accessorio. Mai qualcosa di diverso dal solito.
La sensazione che arrivava dal suo aspetto esteriore era quella di avere davanti a sé non una donna di quarant’anni, bensì una bambina. Una bambina senza libertà di scelta su cosa indossare per la sua giornata.

Dopo un po’ di tempo insieme in terapia, vennero fuori alcuni aneddoti che diedero significato a quel suo modo di vestirsi: Pamela si era sentita spesso criticata quando aveva provato a cambiare pettinatura dal parrucchiere o perché aveva comprato un giubbotto in linea con le tendenze di moda del momento.

E di fatto, Pamela non riusciva a esprimere se stessa su più fronti, compreso quello dell’aspetto esteriore.

Raccontarsi agli altri attraverso la propria immagine

Il tema dell’apparenza è un tema difficile poiché corre il rischio di essere giudicato come un argomento legato solamente a questioni di vanità.
Ma ciò che emerge da un’analisi più attenta, fa comprendere come

prestare attenzione anche all’aspetto esteriore di un individuo e al proprio sia tutt’altro che una questione di mera superficialità: perché l’aspetto esteriore è uno dei canali comunicativi a disposizione della persona.

E se ci teniamo al nostro modo di comunicare, se vogliamo far sì che la nostra vera identità traspaia fin dalla prima impressione che diamo, che sia in un ambito personale o in quello professionale, dobbiamo considerare i fenomeni che abbiamo visto più sopra: la formazione di schemi mentali, la forza comunicativa del canale non verbale, i vizi di attribuzione. Interrogandoci su quale tipo di comunicazione preferiamo utilizzare: efficiente o efficace? Centrata su chi il messaggio lo emette o su ciò che ha carpito il ricevente?
Affinché anche l’immagine di sé che trasmettiamo in prima battuta possa essere una parte della nostra vera identità.

 

Foto: Francesca Savino

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