Il dolore sulla pelle: i gesti autolesivi in adolescenza

… oggi mentre cercavo di studiare e non ci riuscivo, dalla rabbia mi sono tagliata entrambe le braccia… guardavo il sangue fluire e mi sono sentita meglio. Sono stata lì sdraiata in bagno per un po’, poi ho asciugato tutto con la carta igienica, ho coperto i tagli con le maniche lunghe della felpa e sono tornata a studiare”

“Successe per caso, ero in lite con i miei, appena lasciata dal mio ragazzo e mi sentivo così arrabbiata con la vita e con Dio che per nervosismo scaraventai un bicchiere a terra, ne raccolsi i cocci e facendolo mi tagliai. Era una sensazione magnifica. Così raccolsi un pezzo di vetro e iniziai a incidermi sulle braccia, sulle gambe […]”

“Sono un autolesionista da anni e nulla è cambiato da quando svitavo il temperino e ne estraevo la lametta. Si sono evoluti i metodi, ma il mio fine è sempre lo stesso. […] perchè lo faccio non lo so nemmeno io. La sola mia certezza è che è l’unico modo per non sentire quel peso insopportabile che mi opprime la testa in certe situazioni”

Queste sono tre citazioni tratte da alcuni forum sull’autolesionismo che si possono trovare in rete.

Ascoltare una ragazza o un ragazzo raccontare i propri gesti e comportamenti autolesivi è un’esperienza forte, che può impressionare e che certamente non lascia mai indifferenti.

Autolesionismi

L’autolesionismo è un fenomeno ampiamente diffuso che consiste nel provocarsi ferite o lesioni di qualsiasi genere.

Esistono differenti tipi di autolesionismo: il self-mutilative behavior riguarda le condotte in cui vi è l’asportazione di una parte del proprio corpo; il self-harming behavior include forme indirette di autolesionismo come modi particolari di bere, alimentarsi o fumare che si possono tradurre in un danno alla salute.

In questo articolo ci occuperemo in particolare del self-injurious behavior che è una forma di autolesionismo che prevede tagliare, incidere o bruciare la pelle, conficcarsi aghi nella carne o impedire volontariamente la rimarginazione delle ferite. Si tratta di comportamenti che hanno inizio prevalentemente in pre-adolescenza e in adolescenza, ma che possono poi protrarsi anche durante la vita adulta. 

Un po’ di storia

I primi studi clinici sull’autolesionismo risalgono agli anni 60 del 1900 quando gli psichiatri diedero attenzione alla pratica del “taglio dei polsi”. Il prototipo del paziente che si taglia i polsi era una donna, giovane, non coniugata, di buon livello intellettivo, inibita o spaventata dalla sessualità, poco capace a stabilire relazioni con gli altri. In uno studio del 1972, Rosenthal e colleghi documentarono che le pazienti dichiaravano di sentirsi meglio alla vista del sangue che sgorgava dalla ferita e che i sentimenti di vuoto e di angoscia che avevano preceduto il taglio scemavano lasciando il posto a una sensazione di pace.

Non sembra che sia cambiato molto da allora…

Nella pratica dei tagli, si usa il corpo per dare una forma a uno stato mentale intollerabile, così che la pelle diventi una superficie sulla quale scrivere il proprio dolore.

Quando si incontrano ragazze e ragazzi che si feriscono volontariamente, spesso si scopre che non riescono a piangere: perché non lo vogliono fare, perché non ne sono più capaci da tempo e perché non riescono a trovare le parole per raccontare le loro preoccupazioni e sofferenze. 

Così, al posto delle lacrime e delle parole, sgorga il sangue.

Adolescenza e tagli

Quando pensiamo all’adolescenza sia come adulti che desiderano capire i ragazzi sia come ragazzi che cercano di barcamenarsi in quel che sta succedendo loro, è importante tenere a mente che l’adolescente vive un senso di solitudine: non appartiene più alla comunità dei bambini, non appartiene ancora a quella degli adulti e si colloca perciò in una posizione intermedia non sempre facile. 

Si è lasciato alle spalle i privilegi della condizione infantile e ha perso il suo corpo di bambino, ritrovandosi in uno nuovo, sconosciuto, che spesso tradisce le aspettative: ragazze e ragazzi si vedono in un corpo non abbastanza alto, senza abbastanza forme, con kg in più o in meno al posto sbagliato. Un corpo insomma molto diverso da quello infantile che era familiare e altrettanto diverso da ciò che avrebbero desiderato per sé, anche rispetto agli esigenti canoni estetici dell’attuale società in cui viviamo.

Ed è su quel corpo così poco amato e accettato che a volte “scrivono” il loro dolore, dandone voce sulla pelle.

I significati dei gesti autolesivi

Per questo motivo diventa indispensabile comprendere il significato che assumono nella vita dei ragazzi quei segni incisi sul loro corpo, prima di dire loro di smetterla (lo sanno già da soli che dovrebbero smetterla, ma non ci riescono): i tagli, le bruciature, le lesioni sono un modo attraverso il quale quella persona sta cercando di dire qualcosa.

Cosa sia quel o quei “qualcosa” lo si può scoprire un po’ per volta dando uno spazio di ascolto ai ragazzi, tenendo a mente che nell’autolesionismo vi sono macro-aree dentro le quali trovare alcuni dei significati legati alla ferita inferta. Proviamo a elencarne alcuni.

Si può trattare di: 

  • trasformare un dolore psichico, emotivo, avvertito come intollerabile, in un dolore fisico, maggiormente sopportabile;
  • purificare una parte di sé percepita cattiva, una sorta di punizione e di espiazione;
  • controllare sentimenti di tensione angosciosa come rabbia, irritazione, malumore, confusione: il taglio infatti genera spesso nei ragazzi una sensazione di alleggerimento dalle tensioni che li opprimono;
  • comunicare ciò che non si riesce a esprimere attraverso le parole;
  • costruire una traccia di sé, un modo per fissare una memoria di sé incidendo sulla pelle tacche che segnano determinati momenti della vita;
  • trasformare in attive esperienze che vengono subite o imposte, un modo per ribaltare un senso di impotenza.

Cosa fare

A chi soffre di condotte autolesionistiche l’ultima cosa da dire è quella di smetterla, almeno in prima battuta: una ragazza o un ragazzo che si fa del male è consapevole della nocività dei suoi comportamenti e vorrebbe smettere. Tuttavia, proprio per le funzioni sopra elencate che ha la ferita, è difficile, se non impossibile farlo da solo.

I ragazzi si tagliano non perché va di moda, non perché lo fa il compagno la compagna di scuola, non (o non solo) perché la società attuale propone modelli pericolosi, ma perché sta male internamente. E sì, a volte vuole attirare, inconsapevolmente, l’attenzione degli adulti che popolano la sua vita: non sa come chiedere aiuto e non sa come fare a smettere.

Per poter intraprendere la strada che porti a una diminuzione e poi al termine di tali comportamenti è necessario trovare le parole che stanno dietro a quei tagli, dare un nome alle emozioni, alle preoccupazioni, alle sensazioni che si muovono nei ragazzi.

Bisogna restituire cioè la voce alla persona, tenendo in grande considerazione ciò che la persona può dire e raccontare intorno al suo gesto.

 

Gli adulti di riferimento sono i primi psicoanalisti di questi ragazzi: un po’ come accadeva un tempo quando erano neonati e traducevano i loro pianti in “sonno”, “fame”, “pannolino da cambiare” e così via, oggi gli adulti devono guardare i loro ragazzi pensando a persone in crescita e con una mente ancora immatura da sostenere e con sensazioni da tradurre in parole.

La prima cosa da fare dunque è quella di ascoltarli, senza la fretta di trovare una soluzione al posto loro, anche se la preoccupazione è tanta.

Bisogna tenere presente che i ragazzi non hanno sempre voglia di parlare e soprattutto non ne hanno sempre voglia quando gli adulti sono liberi. È allora importante che l’adulto sia in grado di cogliere l’attimo o di creare un ambiente che favorisca nell’adolescente la fiducia per potersi aprire e per poter raccontare. 

Alla classica domanda “Com’è andata oggi a scuola?” spesso ci si sentirà rispondere con un mugugno o con un laconico “bene”. Ma è quando si sta cucinando o mandando una mail di lavoro che a volte i ragazzi arrivano a chiedere, in modo più o meno esplicito, un aiuto o magari un confronto ed è lì che l’adulto deve trovarsi pronto ad accogliere e ascoltare, almeno un pezzo del discorso, per poi rimandarlo al più presto dopo la conclusione dell’incombenza a cui si stava ottemperando. È quando ci si interessa sinceramente dei loro social, dei loro video, della loro musica che si trovano le chiavi che aprono le porte per entrare nei loro mondi. È quando ci si avvicina loro nella disposizione d’animo di chi non ha sempre e solo da insegnare, ma ha anche qualcosa da imparare, proprio da loro che si crea una vicinanza autentica.

E con il loro consenso o tramite la loro stessa richiesta, è necessario contattare il Servizio di Neuropsichiatria Infantile, lo spazio di ascolto per adolescenti della propria città o lo studio di uno psicoterapeuta al fine di curare le ferite, quelle interne che danno luogo a quelle esterne.

Il lavoro psicoterapeutico con questi ragazzi si prefigge innanzitutto di donare un senso ai gesti che possono apparire insensati. È volto a promuovere consapevolezza rispetto alle ragioni affettive espresse attraverso le ferite sia nei ragazzi sia nei loro adulti di riferimento. Lo psicoterapeuta, nel caso dei ragazzi più giovani, si fa ponte fra adulti e adolescenti per veicolare messaggi di senso fra le parti e abbattere le barriere comunicative. E la psicoterapia avrà come obiettivo quello di legittimare la supremazia della parola sull’agito, sostenendo la crescita di un Sé in divenire ancora da costruire.

Riferimenti bibliografici per un approfondimento:
  • M. Rossi Monti, A. D’Agostino “L’autolesionismo” Bussole, Carocci editore, 2014
  • M. Lancini, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella “L’adolescente” Raffaello Cortina, 2020

 

Per un approfondimento sulla consultazione psicologica in adolescenza, puoi visitare la pagina del sito che ne parla.

 

Foto: Francesca Savino

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